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La dimensione del Lutto

Che cos’è il lutto? Un sentimento doloroso legato alla perdita di una persona che ha rappresentato, in un certo momento della propria vita personale, un legame affettivo significativo. Questa separazione non è dovuta necessariamente alla morte di quella persona e quindi il lutto si struttura nel dolore legato proprio all’esperienza del distacco e della perdita.

“Coloro che amiamo e che abbiamo perduto non sono più dove erano ma sono ovunque noi siamo” (Sant’Agostino).

E’ possibile vivere un lutto anche per la perdita di un lavoro o di uno status sociale? Assolutamente sì! L’esperienza del lutto è legata alla perdita di qualcuno o di una condizione e quindi può verificarsi anche dopo un licenziamento o la perdita improvvisa di un ruolo sociale e lavorativo legato ad esempio al fallimento di un’azienda o alla vendita di una casa con dei ricordi particolarmente affettivi.

Il senso di vuoto e di solitudine conseguenti alla perdita possono stravolgere significativamente l’equilibrio psichico di chi la vive e i ricordi di quella persona o della condizione perduta possono divenire insopportabili se non vi è un’adeguata elaborazione dei significati.

Nella tradizione ebraica la persona che è in lutto si fa uno strappo nell’abito prima o dopo il funerale della persona cara che è venuta meno. A livello simbolico il gesto è molto forte e significativo. Quando le persone in lutto tornano a casa dal funerale del proprio caro per sette giorni non possono fare bagno o doccia, non devono indossare gioielleria, gli uomini non si fanno la barba e spesso si utilizzano delle sedie molto basse per simbolizzare l’esperienza di essere prostrati dalla sofferenza per la perdita.

Durante questi sette giorni le persone vicine al defunto vanno a trovare e consolare i familiari. Questa fase si chiama “Shiva”.

Perché ho utilizzato l’esempio della cultura ebraica? Per porre l’accento sulla frenesia della nostra società. Pensate che lo “Shiva” ebraico dura sette giorni ed è una delle fasi iniziali del processo di elaborazione del lutto. L’intero processo arriva a durare più di un mese e nel caso della perdita di un genitore la durata del processo luttuoso arriva fino a dodici mesi.

Certamente vi sono delle differenze culturali importanti nella nostra Società. Eppure è importante afferrare il criterio della temporalità perché spesso nel mondo capitalista si arrivano a consumare le emozioni così rapidamente che sfuggono di mano e non vengono quindi colte ed elaborate, così da permettere alla persona di andare avanti con la sua vita, anche dopo il lutto di una persona cara. Il tempo in queste esperienze di perdita è fondamentale e le emozioni vanno vissute appieno dalla sofferenza fino all’accettazione della perdita.

Le fasi del lutto

Elencheremo ora le fasi salienti del processo di elaborazione del lutto così da giungere all’accettazione della perdita:

  1. negazione o rifiuto della perdita (tentativo di negare la realtà);
  2. rabbia (auto diretta o rivolta alle persone vicine o addirittura verso il defunto);
  3. negoziazione (tentativo di trovare risposte o soluzioni accettabili così da poter integrare l’accaduto nella propria identità);
  4. depressione (profondo dolore e tristezza per la comprensione che ciò che è successo è irreversibile);
  5. accettazione (si accetta l’accaduto e la perdita trovando pace interiore e la spinta ad andare avanti).

I tempi per contrattare l’accettazione variano da persona a persona e oscillano da 6 mesi fino a 2 anni.

Quando la persona resta intrappolata in una delle prime fasi ed il dolore è insopportabile il confronto con un professionista può creare movimento e rimettere in moto l’individuo.

Lutto e Covid

Abbiamo visto quello che è il processo di elaborazione del lutto nell’esperienza della perdita di una persona cara.

Vorremmo dedicare ora qualche riga alla situazione attuale di emergenza sanitaria che il nostro paese ed il mondo stanno vivendo a causa del Covid19.

Infatti le fasi del processo che portano la persona in lutto ad accettare la perdita subita trova molteplici ostacoli in questo momento storico, infatti, ahimè, moltissime persone stanno perdendo i propri cari colpiti dal virus e ciò fa sì che essi debbano morire in solitudine e senza la possibilità di dare un ultimo bacio, abbraccio o un’ultima carezza alle persone care.

Non poter dire addio ai propri cari rende ancora più difficile una situazione già naturalmente profondamente dolorosa e faticosa da vivere ed inoltre, già privati dell’ultimo saluto, i familiari del defunto devono anche temporeggiare rispetto al dare alla persona che è venuta meno una degna sepoltura e cerimonia funebre.

Sono tanti i matrimoni che stanno slittando a causa del virus, ma se questi racchiudono emozioni gioiose, sono altrettanti i funerali rimandati a data da destinarsi ed è qui che la sofferenza esplode in tutta la sua potenza.

Fortunatamente alcune strutture ospedaliere deputate al trattamento di pazienti Covid19 hanno assunto team di esperti Psicologi con l’obiettivo di dare un immediato supporto telefonico ai familiari delle vittime e, in alcuni casi, sono riuscite a sfruttare la tecnologia a proprio vantaggio dando la possibilità alla persona infetta di dare l’ultimo saluto in video chiamata con Tablet nella commozione generale del personale sanitario e delle famiglie.

Non potendo estendere questa possibilità a tutte le famiglie delle vittime diventa quindi essenziale che i familiari delle vittime riescano con l’adeguato supporto psicologico per via telematica a ritagliarsi un momento condiviso e un momento di solitudine dove iniziare a fare i conti con la perdita, con la sofferenza così da avviare il processo del lutto anche se questo si è scontrato con le problematiche di isolamento del virus. Un isolamento tanto semplice per noi in quarantena quanto difficile e doloroso per chi sta morendo solo e per chi sta perdendo l’amore isolato.

Ricordate i vostri cari che sono mancati in questa battaglia invisibile e sommersa nelle affollate corsie degli Ospedali con i modi che più vi appartengono: da una melodia suonata al pianoforte ad un albero piantato in giardino e con qualcosa che, simbolicamente, possa donare vita laddove la fiamma della speranza si è spenta in un silenzioso e solitario soffio di morte.

La paura del giudizio

A chi non è capitato almeno una volta nella vita di temere il giudizio di un’altra persona, sia essa un genitore, un amico, un partner, un collega o qualcun altro?

La pressione del giudizio degli altri può arrivare ad essere davvero intensa e farci sentire schiacciati e in gabbia quasi come fossimo incapaci di reagire.

Se ci pensiamo un attimo, la nostra Società, fin da quando ognuno di noi era bambino ci ha educato ed abituato ad essere valutati con l’obiettivo di raggiungere un grado di sufficienza sia specifico (ad esempio in una disciplina scolastica) sia generalizzato (in termini di adeguatezza o inadeguatezza).

Ma possiamo dare la colpa unicamente al sistema educativo? Certo che no, infatti oltre a quel tipo di dinamiche dobbiamo ricordarci anche di tutte le volte che ci siamo sentiti adeguati o meno di fronte alla mamma o al papà (chi ha avuto la fortuna di averli entrambi) ed inoltre dobbiamo fare i conti con la capacità che abbiamo avuto nel nostro passato di instaurare relazioni affettive soddisfacenti che ci hanno fatto sentire più o meno adeguati.

Ecco che l’insieme di tutti questi fattori ha contribuito al grado di sicurezza o insicurezza che oggi ci appartiene (che ci piaccia o no).

Di fatto, alla base della paura del giudizio degli altri troviamo un’altra paura, più profonda: quella del rifiuto e della solitudine.

Guidati da questa potente paura può capitare che possiamo essere più o meno autentici per assecondare l’altro ed evitare quindi l’esposizione ad un conflitto altrimenti spaventoso poiché potrebbe portare alla chiusura di quello specifico rapporto e portare quindi alla solitudine.

Ecco che molti di noi (oserei dire tutti con livelli di gravità diversi), indossano delle maschere, un esempio riguarda la costruzione dell’identità digitale che va a tendere all’ideale del falso sé allontanandosi in realtà dall’essenza identitaria di ognuno.

Come posso vincere la paura del giudizio degli altri? Gli esercizi che suggerisco, ben consapevole che non costituiranno una soluzione ma un tampone, riguardano  l’allenamento della propria spontaneità, rendere più flessibili i valori che utilizziamo per sentirci adeguati, differenziare tra una critica manipolatoria e una costruttiva che può farci invece crescere. Qualora il senso di dolore della condizione di esposizione al giudizio fosse ingestibile ecco che un percorso di psicoterapia diventa un’arma molto efficace.

relazione terapeutica

La relazione terapeutica e la paura di crescere

All’inizio di un percorso di psicoterapia una delle più grandi difficoltà e’ costituita dalla creazione di un rapporto di fiducia tra paziente e terapeuta e, prima di questo, dall’intensità della motivazione a richiedere l’aiuto di un professionista che non si conosce.

Inizialmente paziente e terapeuta sono due sconosciuti. Questo può rappresentare uno scoglio e spesso il paziente si domanda “perché dovrei raccontare la mia vita, le mie fatiche e i miei dolori a questo sconosciuto?”

Questo tema e’ un ostacolo iniziale e, già dopo pochi incontri, si entrerà in un clima connotato emotivamente da una tonalità delle emozioni più calda e confidente, pur nel rispetto della dovuta distanza professionale.

Ecco come l’iniziale ostacolo diverrà poco a poco un punto di forza e quindi quella distanza dal mondo del paziente  permetterà al terapeuta di compiere un’analisi più pulita del racconto della persona e al paziente di aprirsi con maggior spontaneità e naturalezza in un ambiente strutturato da un setting ad hoc e privo di qualunque forma di giudizio all’interno di uno spazio condiviso incontaminato.

Inoltre tutto ciò che paziente e terapeuta condivideranno sarà protetto dal segreto professionale.

Questo clima di “relazione o alleanza terapeutica” favorirà  la buona riuscita del percorso di psicoterapia. Quest’alleanza tra paziente e terapeuta altro non e’ che la condivisione reciproca della fiducia e di alcune regole di rispetto del setting e di buona educazione (impegnarsi in una reciproca puntualità, dare i giusti preavvisi in caso di spostamento della seduta, non sconfinare dal lavoro terapeutico).

Spesso, soprattutto all’inizio di un percorso terapeutico, capita che il paziente abbia l’erronea tendenza a considerare la figura del terapeuta come onnipotente e magica nel sostituirsi a lui nella ricerca di una soluzione ai suoi problemi, ma ovviamente non e’ così.

In altre situazioni il paziente ricerca nel terapeuta la conferma di appartenere ad una specifica etichetta diagnostica come se questa potesse descriverlo e coglierlo al meglio.

Nella realtà dei fatti e’ fondamentale che il paziente comprenda che la buona riuscita di una psicoterapia implica la sua partecipazione attiva in un clima di fiducia e collaborazione con il  terapeuta.

Uno dei blocchi più frequenti che le persone incontrano nella formulazione di una richiesta d’aiuto e di supporto emotivo e’ rappresentato proprio dal terrore di affrontare la propria autenticità e aprirsi al cambiamento.

Mi capita, alcune volte, che una persona fissi un primo incontro via web o via telefono e, pochi minuti prima dell’ora stabilita, essa scompaia nel nulla. 

Questo capita poiché ognuno ha i suoi tempi nella formulazione di una domanda d’aiuto e si sperimenta un certo grado di paura  quando si coglie che si sta per lavorare su temi faticosi e che spesso sono stati storicamente messi da parte. E’ quindi importante cercare di ascoltarsi e rispettare i propri tempi così da chiedere aiuto quando è maturata sufficientemente la necessità di supporto e la voglia di fare un lavoro attivo e responsabilizzante su di sé.

In certi casi la persona, mossa dalla paura, tenderà alla fuga, alcune volte senza mai essere arrivato nello studio del professionista. Ecco che per la riuscita di una buona psicoterapia e’ fondamentale formulare una richiesta d’aiuto autentica e toccare con mano almeno il primo colloquio, con la consapevolezza che il desiderio di fuga si traduce in un’intensa paura di scoprirsi e cambiare. Ma la piacevole sorpresa prende forma nel coraggio di affrontare quel pezzetto di dolore, che in natura ha una funzione adattiva, per crescere e riposizionarsi afferrando se stessi e un maggior grado di benessere e felicità.